“Cosa fai?”
“La CCC, Courmayeur,
Champex, Chamonix”
“E che cos’è?”
“Vabbè lasciamo stare..”
La CCC non si può descrivere, e quindi non lo farò. Fondamentale è però sapere che si tratta di una corsa di 100km, 6100 metri di dislivello e che fa il mezzo giro del massiccio del Monte Bianco, partendo da Courma e arrivando a Chamonix, capitale del trail, almeno nell’ultima settimana di agosto. Detto così 100 km e 6100 metri su e giù per colli sembra cosa da fare tremare i polsi, ma in pratica è un trail dove chi ne ha può correre per lunghi tratti, in modo da evitare di farsi sopraffare dall’ansia dei cancelli orari come avvenuto al sottoscritto.
A livello prestazionale gli obiettivi del Tapabada erano nell’ordine:
- non farsi male
- portare a termine nel tempo limite la prima gara da 100 km
a cui partecipavo
- avere ancora le energie negli ultimi 200
metri per individuare la family ed essere immortalato mano nella mano con le
figlie sotto il traguardo.
Senza lasciare col fiato sospeso i lettori del blog dico subito che gli obiettivi sono stati raggiunti. Ma tra la partenza e l’arrivo
si sono alternati tanti stati d’animo e tanti momenti di corsa che hanno fatto
di questa CCC un lungo viaggio più che un trail. Di questi momenti ne fisso
due: l’anziana signora svizzera che verso le 23 attende gli ultimi concorrenti
fuori casa con un termos di tè da offrire e il chilometro lanciato per arrivare
al ristoro di Vallorcine al km 84, prima il cancello orario venisse chiuso. Non
pensavo di farcela, ero pronto a gettare la spugna, ma poi una vocina
si è insinuata nel cervello e ne ho fatto un karma. Così alla fine mi porto a
casa questa lezione, che già si conosce, ma che vale la pena ogni tanto ripetere ad alta voce: volere è potere.
Fino a qui le mie impressioni. Per gli aficionados del genere ecco la long version della mia CCC.
Ed eccoci finalmente a Courmayeur. Dopo mesi passati a
decidere quale materiale utilizzare, a saccheggiare Amazon in cerca di oggetti
strani, tipo cappello tipo sahariana, a macinare chilometri su per i monti ad
ore antelucane, finalmente arriva il momento di vedere se 100 chilometri fanno
per il Tapabada.
Courmayeur a fine agosto appare tranquilla come l’hotel, in
cui si alloggia. Ci troviamo a 100 metri dallo Sport Center, dove si ritirano i
pettorali, e dieci metri sopra la Dora Baltea che scorre tumultuosa sotto la
finestra della nostra camera. La family è al completo, pronta a documentare la
pazzia di un cinquantenne a cui un giorno è venuta l’idea di festeggiare il
traguardo dei 50, doppiandone la cifra, ma in chilometri.
Sveglia alle 6, colazione in camera, perché in hotel la
colazione prima delle 8 no e poi no, e poi si va in piazza con largo anticipo
per calarsi nella parte.
Qualche selfie, un’intervista con il TGR VdA, e poi la
partenza nella seconda onda (9.15). Si parte lenti e già fuori dal paese E., compagna di giornata, ed il tenutario del blog iniziano a camminare. Tra fermate e ripartenze dovute all’intenso traffico
(ma quanti siamo?) si arriva alla Tete de la Tronche, cima Coppi della CCC a
2584 metri (i primi 10 chilometri e 1400 metri di dislivello messi in
magazzino).
Si riprende a correre, dopo averlo fatto solamente nei primi 200 metri della gara. Sulla strada per il Rifugio Bertone, primo ristoro della gara, occorre cimentarsi su un falsopiano che termina con un tuffo a bomba sul rifugio. Rifornimenti solidi, mocetta, formaggio e tuc salati, il primo brodo (squisito), coca cola. Sono 14 chilometri in 3,8 km/h che dovrebbe essere il minimo sindacale per arrivare in fondo senza l’ansia dei cancelli orari. Il tratto successivo fino al Rifugio. Bonatti offre una stupenda balconata sul massiccio del Monte Bianco. Dislivello minimo che invita a correre e molti lo fanno, superandomi senza necessità di mettere la freccia. Mi sento bene, comunico con la crew che mi attende al prossimo ristoro di Arnouvaz. Assaggio la prima spaghettata immersa nel brodo. La mangio con le mani, non avendo voglia di utilizzare le posate infilate nello zaino. Spira un forte vento, il tempo sta cambiando e di fronte a noi il Monte Bianco è coperto dalle nuvole. Si riparte verso Arnouvaz, cinque chilometri da fare gambe in spalla, in discesa verso l’avanposto della Val Ferret, che rappresenta il primo cancello orario della gara (16.30). Ci arrivo con una mezzora di anticipo. C’è confusione nel tendone dove si ammassano molti concorrenti per evitare il vento gelato che si rinforza là fuori. Mi infilo la giacca goretex, un ultimo saluto alla crew che mi incita ai piedi della salita verso il Grand Col Ferret, linea di confine con la Svizzera. Ancora prima della metà della salita le quattro gocce diventano pioggia insistente, come da previsioni meteo. Evito di fermarmi per mettere i guanti da cucina e i sovrapantaloni, come invece fanno in tanti. Il sentiero sale prima molto deciso, poi nella seconda metà diventa più agile. Mi sento bene, guardo indietro. Con E., che procede qualche tornante sotto, ci incitiamo a gesti, un bastoncino alzato, un cenno con la mano. Si sale e il freddo si fa sentire, sono pronto a tirare fuori i guanti perché le dita iniziano a raffreddarsi. A salvarmi arriva il cippo confinale. Nella nebbia scorgo una tenda del pronto soccorso. Aspettare E. vorrebbe dire gelarsi in pochi minuti e allora inizio a scendere. Preferisco andare lentamente e attendere di essere raggiunto. Qui si corre, cerco di farlo anch’io in bilico sul fango che copre i sentieri. E’ un continuo zigzagare per evitare le zone più infide. Al controllo di Le Peule, chissà perché credo, di trovare strade poderali più corribili, invece si continua a scendere su single tracks lavati dalle piogge. Solamente negli ultimi chilometri prima del ristoro di La Fouly si raggiunge la strada sterrata. Si può correre, ma è difficile. Piove, inizia a scendere l’oscurità ed E. non si vede. Arrivo con oltre un’ora di vantaggio sul cancello delle 20.30. Prima cosa trovare una panca in mezzo alla tanta gente che staziona nel tendone e cambiarsi. Poi arriva E. Attendo con la frontale già in testa che si cambi e si rifocilli. Usciamo da La Fouly con solo 17 minuti dalla barriera oraria delle 20.30. Il tratto fino a Champex-Lac deve essere uno dei più belli della CCC, ma con il buio il mondo resta confinato dentro il cono di luce della frontale. Discesa tranquilla fino ad Issert, prima su un sentiero che costeggia un salto non indifferente, poi su asfalto in mezzo ai tipici paesi ordinati che incontri in ogni angolo svizzero. Case da cui fa capolino la luce del salotto. Il clima autunnale non invita ad uscire e fare il tifo (forse riserveranno le forze per la notte successiva quando passeranno i trailers della più blasonata UTMB). Solo una coppia di anziani, termos in mano e bicchieri di plastica, offre the alle retrovie di questa corsa. Iniziano i chilometri di salita che precedono Champex-Lac. La salita non è né tosta né lunga, ma senza riferimenti e con l’assillo del cancello orario delle 23.30 sembra non finire più.
Si riprende a correre, dopo averlo fatto solamente nei primi 200 metri della gara. Sulla strada per il Rifugio Bertone, primo ristoro della gara, occorre cimentarsi su un falsopiano che termina con un tuffo a bomba sul rifugio. Rifornimenti solidi, mocetta, formaggio e tuc salati, il primo brodo (squisito), coca cola. Sono 14 chilometri in 3,8 km/h che dovrebbe essere il minimo sindacale per arrivare in fondo senza l’ansia dei cancelli orari. Il tratto successivo fino al Rifugio. Bonatti offre una stupenda balconata sul massiccio del Monte Bianco. Dislivello minimo che invita a correre e molti lo fanno, superandomi senza necessità di mettere la freccia. Mi sento bene, comunico con la crew che mi attende al prossimo ristoro di Arnouvaz. Assaggio la prima spaghettata immersa nel brodo. La mangio con le mani, non avendo voglia di utilizzare le posate infilate nello zaino. Spira un forte vento, il tempo sta cambiando e di fronte a noi il Monte Bianco è coperto dalle nuvole. Si riparte verso Arnouvaz, cinque chilometri da fare gambe in spalla, in discesa verso l’avanposto della Val Ferret, che rappresenta il primo cancello orario della gara (16.30). Ci arrivo con una mezzora di anticipo. C’è confusione nel tendone dove si ammassano molti concorrenti per evitare il vento gelato che si rinforza là fuori. Mi infilo la giacca goretex, un ultimo saluto alla crew che mi incita ai piedi della salita verso il Grand Col Ferret, linea di confine con la Svizzera. Ancora prima della metà della salita le quattro gocce diventano pioggia insistente, come da previsioni meteo. Evito di fermarmi per mettere i guanti da cucina e i sovrapantaloni, come invece fanno in tanti. Il sentiero sale prima molto deciso, poi nella seconda metà diventa più agile. Mi sento bene, guardo indietro. Con E., che procede qualche tornante sotto, ci incitiamo a gesti, un bastoncino alzato, un cenno con la mano. Si sale e il freddo si fa sentire, sono pronto a tirare fuori i guanti perché le dita iniziano a raffreddarsi. A salvarmi arriva il cippo confinale. Nella nebbia scorgo una tenda del pronto soccorso. Aspettare E. vorrebbe dire gelarsi in pochi minuti e allora inizio a scendere. Preferisco andare lentamente e attendere di essere raggiunto. Qui si corre, cerco di farlo anch’io in bilico sul fango che copre i sentieri. E’ un continuo zigzagare per evitare le zone più infide. Al controllo di Le Peule, chissà perché credo, di trovare strade poderali più corribili, invece si continua a scendere su single tracks lavati dalle piogge. Solamente negli ultimi chilometri prima del ristoro di La Fouly si raggiunge la strada sterrata. Si può correre, ma è difficile. Piove, inizia a scendere l’oscurità ed E. non si vede. Arrivo con oltre un’ora di vantaggio sul cancello delle 20.30. Prima cosa trovare una panca in mezzo alla tanta gente che staziona nel tendone e cambiarsi. Poi arriva E. Attendo con la frontale già in testa che si cambi e si rifocilli. Usciamo da La Fouly con solo 17 minuti dalla barriera oraria delle 20.30. Il tratto fino a Champex-Lac deve essere uno dei più belli della CCC, ma con il buio il mondo resta confinato dentro il cono di luce della frontale. Discesa tranquilla fino ad Issert, prima su un sentiero che costeggia un salto non indifferente, poi su asfalto in mezzo ai tipici paesi ordinati che incontri in ogni angolo svizzero. Case da cui fa capolino la luce del salotto. Il clima autunnale non invita ad uscire e fare il tifo (forse riserveranno le forze per la notte successiva quando passeranno i trailers della più blasonata UTMB). Solo una coppia di anziani, termos in mano e bicchieri di plastica, offre the alle retrovie di questa corsa. Iniziano i chilometri di salita che precedono Champex-Lac. La salita non è né tosta né lunga, ma senza riferimenti e con l’assillo del cancello orario delle 23.30 sembra non finire più.
Ai 1400 metri di Champex-Lac il freddo della notte inizia a
farsi sentire. Precedo di 20 minuti il cut off delle 23.30. Preferisco non
cambiarmi. Penso a mangiare (pasta senza condimento e poi ancora immersa nel
brodo, un po’ di coca cola). I tavoli sono quasi tutti vuoti. Restano i
famigliari di chi ha seguito fin qua parenti e amici in corsa. Arriva anche E.
Lei si cambia. Io indosso i guanti da cucina sopra gli altri per ripararmi dall’umidità
ed esco. L’attesa mi raffredda. Rientro. Con E. usciamo a due minuti dal cut
off. La prossima sfida è tra 5 chilometri dove il cancello orario ci
attende tra un’ora, all’imbocco dell’ennesima salita che ci porterà a Bovine e
poi a La Giete. Si va a passo svelto, ma non corriamo. Si forma un gruppetto
abbastanza nutrito, per la maggior parte da asiatici, un inglese (forse) e
qualche spagnolo. Arriviamo trafelati al cancello rappresentato solo da un furgone
dell’assistenza. Lo oltrepassiamo e ci fermiamo (E. a mangiare qualcosa ed io a
indossare i sovrapantaloni). Ora siamo rimasti proprio gli ultimi. Si
affacciano i primi dubbi: ritirarsi o continuare? Le luci delle nostre frontali
attirano l’attenzione dei volontari addetti al cancello orario. Uno di loro si
avvicina: siamo decisi a mollare tutto? Quel volontario sembra proprio arrivare
al momento giusto. Un breve tragitto in furgone fino a Champex-Lac e tutto
sarebbe finito. Non mi ricordo chi di noi due, forse entrambi, assicura il volontario
che stiamo bene e che la nostra intenzione è quella di procedere. Si riparte.
In alto sulla destra possiamo scorgere le luci di altre frontali che si alzano
lungo la montagna di cui si scorge solo la sagoma scura contro il cielo. Questo
è il momento di incoraggiarsi. E. mi dà la carica come ha fatto fino a qui,
esortandomi a non mollare. Il passo è quello giusto e la salita costante, senza
eccessive pendenze, ci aiuta. Iniziamo a riprendere gli ultimi della fila. La luna ora
splende in cielo e ci assiste nel cammino. Infine il sentiero spiana e davanti
a noi le frontali disseminate lungo il percorso ci spronano a continuare con
questo passo. L’ultimo strappo prima della discesa verso Trient ci trova un
po’ piantati sulle gambe. Ma abbiamo
superato un buon numero di concorrenti, non essere ultimi ci conforta.
A La Giete, appena iniziata la discesa, il controllo volante
si trova all’interno di un casolare basso, forse una ex stalla. Ci sono
trailers che dormono e solo una tazza di brodo per scaldarci. La strada verso
Trient resta un po’ sfumata nei miei ricordi. Ora
mi butto in discesa, superando un po’ di gente. Arrivo con 7 minuti di
vantaggio sul cut off al ristoro di Trient. Mangio due tuc, riempio le borracce
d’acqua dal rubinetto posto fuori dal tendone ed esco ad aspettare E.. Arriva,
riesce solo a chippare e poi esce. Demoralizzata, incazzata, ha fame. Alza la
voce: così non si fa! Devo mangiare. Non le permettono di rientrare. Si siede
sul marciapiede. Una crisi di pianto: non mollare stella! Non mollare, siamo
arrivati fino a qui, il peggio è passato. Ci riprendiamo entrambi. La “scopa” mi
chiede se sono in gara e se voglio continuare. Ma scherzi? Siamo ancora ultimi, no, dietro a noi altre due persone e i due ragazzi che fanno da scopa. Io
davanti, E. dietro. Faccio l’andatura, la stimolo a non perdere il ritmo. Dopo
la crisi si è ripresa alla grande. Mi segue e allora andiamo a prenderci
l’ultima vera salita della gara: Catogne a 2000 metri di altitudine. Ultima, ma
sicuramente la più tosta. 700 metri di dislivello senza se e senza ma, “un dritto
per dritto” dove sono in tanti a fermarsi per riprendere fiato. Anche noi
iniziamo ad essere in riserva. Ma anche qui il nostro passo si rivela migliore
di altri. Riprendiamo alcuni concorrenti, quasi sempre asiatici. A Les Tseppes un
controllo volante e un bicchiere di coca. Altri 100 metri su in alto e siamo al
confine tra Svizzera e Francia. Dietro di noi albeggia, di fronte un cielo
livido, nuvole basse all’orizzonte. Proviamo a correre, mi giro ed E. è già
lontana. La discesa verso Vallorcine ed il cancello delle 7.15 mi sembra
infinita. Mi attardo dietro qualcuno che procede lentamente, un gruppo di frontali
si sta avvicinando. Non va bene. Inizio a superare chi mi sta davanti. Ora
siamo sulle piste da sci. Guardo l’orologio: sono le 6.49 e non so quanto
manchi a Vallorcine. Inizia a prendermi lo sconforto, cammino, corricchio.
Tanti pensieri negativi si affollano nella mia mente in questa alba grigia. Va
bene è andata così, di più non potevo fare… come posso essermi messo in testa
una sfida così grande per me. Poi una voce si insinua lentamente: provaci, almeno
potrai dire di avere dato tutto. La voce diventa un karma e riprendo a correre
con tutta la voglia e la rabbia di non restare fuori, di non essere escluso dal
mio sogno proprio adesso che manca così poco al traguardo finale. Mi getto a
capofitto, come fossi appena partito per un 10mila metri, prima sulle pista da
sci e poi su un sentiero pieno di rocce in bella evidenza. Mi dico che sono
spacciato: impossibile fare velocità su questo tracciato. Ma alla fine sono a
Vallorcine, corro a perdifiato. Entro nel tendone che
mancano 6 minuti alla fine delle ostilità. Bevo, riempio le borracce, poi esco
a cambiarmi le calze (ormai non riesco ad appoggiare normalmente il mio piede sinistro
che mostra una vescica abbastanza importante sull’esterno del tallone). Mi
siedo sui gradini del bar della stazione e attendo che arrivi E.. Non si vede
all’orizzonte. A quel punto riparto, contento per avere passato l’ultimo
ostacolo di questa gara, ma ugualmente dispiaciuto per non averla aiutata a superare
questo cancello. “Non è la nostra gara è la tua gara”, le sue parole mi suonano
nella testa.
Riprendo più leggero. E’ stata cancellata la salita alla Tete
aux Vents a causa della chiusura di un sentiero e la strada ora procede per
diversi chilometri in piano fino a entrare nel parco naturale delle Aguille
Rouges. L’asfalto torna ad essere sentiero e salendo ci si ricompatta a
gruppetti per l’erta finale. Il passo è già quello di chi ce l’ha fatta.
Onestamente non ho ben chiaro se si debba scendere o salire per arrivare a
Flegere, l’ultimo cancello prima di Chamonix, fissato alle 10.45. Però ci arrivo di
gran carriera, spingendo sulle gambe e sui bastoni. Un po’ di liquidi, una barretta
e fuori dal tendone il cartello che indica gli ultimi 8 chilometri mi emoziona.
Adesso è tutta discesa. Le gambe iniziano a farmi male, la vescica mi dà fastidio,
ma stringo i denti e scendo a punciot
(do you know?). Non vedo sentieri, non vedo ostacoli. Solo tanta gente che mi
viene incontro (soprattutto trailers che risalgono per assistere alla battaglia
dei top runners nella UTMB che passeranno da qui tra qualche ora). I bravò si
sprecano. Scendo come se non avessi pagato il panino col salame al Mimmo su alla Gianetti.
Imbocco gli ultimi chilometri di asfalto. Ci sono concorrenti che si fermano
per mettersi la maglia pulita, togliersi l’antivento. Io continuo a spingere come se non
ci fosse domani, perché non vedo l’ora di abbracciare la crew, perché se mi
fermassi a pensare mi verrebbero le lacrime. Troppe le emozioni, la fragilità
che è diventata forza, volontà di farcela. Penso solamente a correre. E poi gli
ultimi chilometri che valgono da soli il
biglietto per Chamonix. Due ali di folla ad incitare anche l’ultimo dei
tapascioni. Uno spettacolo che mi lascia senza fiato, abituato come sono ad
arrivare quando hanno già sgonfiato il gonfiabile. Qui invece all’ultima curva
gli applausi si alzano ancora più forti. Ma io ho solo occhi per la crew. Con
loro arrivo fino in fondo, con la consapevolezza di avere vinto anch’io. #nevergiveup
P.S. durante le foto del dopogara avviene la premiazione del De
Gasperi tra i primi della CCC. Mi viene da sorridere, ripensando alla notte
quando, tra le battute scambiate con E., ci chiedevamo se il primo degli
italiani avrebbe atteso l’ultimo sulla linea del traguardo per rendergli onore …