Agli amici del baretto che mi chiedono
della fatica nel fare 83 km su e giù per i monti rispondo loro che dovrebbero
provare a stirare 6 camicie (rigorosamente manica lunga) in una torrida sera
d’estate per capire cosa è la vera fatica. Non che la BUT sia stata una
passeggiata, ma la cadenza triste del cercatore di funghi mi ha permesso di
schivare la tagliola dei cancelli orari messi un po’ alla c###o e di arrivare al
traguardo di Riale poco prima che l’uomo scopa ed il buio mettessero la parola
fine a questa ultra della Val Formazza.
19 ore sulle gambe sono lunghe anche
da raccontare, ma agli amici del baretto, che intanto si godono l’òra, il vento
che soffia dal lago, è sufficiente qualche immagine per diagnosticare la grave
malattia mentale del tenutario di questo blog. Per esempio l’immagine della
partenza alle 3 della mattina da Ponte insieme ad altri 200 frontali accese, pronte
ad arrampicarsi sulla gippabile che porta al lago del Vannino. Poi in rapida
successione la salita al passo del Busin e alla Bocchetta della Valle dove l’alba
ci incontra quasi 1400 metri più in alto rispetto al punto di partenza per
donarci l’incanto delle più famose tra le cime lepontine. Da lì lungo i prati
del grande est e poi in picchiata verso il Devero. Al 27esimo km finalmente il
primo ristoro ed una colazione decente, dopo il pan bauletto e mortadella ingoiato
alle 2.30.
Ora gli amici del baretto, con la coda
dell’occhio ancora attenti alle belle tedesche che sfilano verso la spiaggia
della Porfina, vogliono sentire parlare di gesta eroiche, di dislivelli macinati.
Ed io giù ad esaltare la lunga salita alla Scatta di Minoia che ci riporta
verso il lago del Vannino o ancora quella secca verso il Passo del Nefelgiù. “Ma
ragazzi sono le discese quelle che mi spaccano, lo volete capire!” E’ lì che il
Tapabada perde terreno, con le Akasha che mostrano tutta la loro gioventù.
Dolorante ai piedi e claudicante nella
testa quando arrivo alla base vita di Riale sono pronto al ritiro. I 50 km alle
spalle mi sembrano già un’enormità e tornare qui dopo averne macinati altri 33 è un’idea che mi affascina tanto quanto vedere Reazione a catena. Ma complice il pensiero degli amici del baretto che
rimarrebbero senza lieto fine ed un piatto di pasta il Tapabada, rifocillato e
risuolato con delle più generose Hoka, riprende il cammino (perché di questo
ormai si tratta) verso i 3000 metri del rifugio 3A. L’apprensione di chi mi
guida in questa avventura è il cancello orario successivo. Io invece mi godo la
fatica immane che porta verso il rifugio mai toccato, ma così ricorrente nei
miei pensieri giovanili.
Gli amici del baretto, finalmente
catturati alla mia causa, sono lì con me ad affrontare le rampe che dal lago
Morasco salgono prima ai Sabbioni e poi al Claudio e Bruno. Non degnano nemmeno
lo spritz gardesano in bella vista che il Fabio ha servito loro e si mettono in
coda su quel sentiero che sembra non finire mai. Là in alto il 3A mi guarda
storto, ma io non mi curo. Sono concentrato a sentire sulla faccia e nelle
orecchie il sibilo del vento patagonico di questo tardo pomeriggio limpido e
abbagliante. E’ l’unico rumore che si percepisce nell’immensa vastità di blu,
verde e bianco che l’occhio può abbracciare.
Arrivato al ristoro del 3A ancora
non è finita: manca la discesa a patella dal ghiacciaio del Siedel, il
passaggio al rifugio Città di Busto e la planata sulla piana del Bettelmatt 5
minuti prima che chiuda il cancello orario. “Amici, non vi sto a raccontare gli
ultimi 17 km. Subito la salita al passo Gries, poi i nevai verso la capanna
Corno, e ancora il passo S. Giacomo, ultimo dislivello prima dell’arrivo”. Preservo
la mia testa e le mie gambe da ricordi penosi. Siamo agli ultimi 5 km. Il lago
Toggia è interminabile. Sfila lento alla nostra sinistra prima della picchiata
(!) finale verso il traguardo. E’ l’idea di dovermi fermare a cercare la
frontale nello zaino e farne ulteriore uso a provocare in me un sussulto d’orgoglio
e a riaccendermi i led del sistema nervoso. Aziono i flap e l’ultimo km mi
sembra volare via. La passerella finale al chiaro di luna è per pochi intimi. Qui
hanno già sbaraccato. Rimane un tabellone da firmare e una bionda ad
immortalare il Tapabada e la sua guida indiana. La tanta fatica mi impedisce di
gustare appieno l’emozione del momento, del #nonsimollauncazzo e del
celodurismo che ti porta a fare ‘ste cose qui. Riale, deserta e buia, diventa all’improvviso
una realtà per i miei piedi ed una sorgente per il mio spirito. La festa
proseguirà domani, ora c’è tempo solo per una doccia ed una pizza, perché le grandi
distanze ti fanno apprezzare solo l’essenziale, il qui&adesso.
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