15 novembre 2016

12 novembre - Cross del Poker novarese

La massima espressione di autostima del Tapabada è quella di ritenersi ancora un podista. E quale migliore occasione di dimostrarlo partecipando ad un cross, intendo ad una campestre, come le chiamava il prof di educazione fisica alle scuole medie inferiori S.Giuseppe qualche ventennio fa.

Due sono le ragioni che mi spingono da sempre ad approcciare il Cross di Vaprio d’Agogna con buona predisposizione di animo: il fatto che la corsa si svolga nei giorni dell’estate di S. Martino (con escursioni termiche annesse) e il pane con gorgonzola locale del ristoro a fine corsa. Che poi qui possa trovare la mia claque personale è di secondaria importanza, vista la performance podistica che posso offrire loro.
Nel mio personalissimo taccuino risulta che dal 2012 non calco i terreni agricoli che hanno dato i natali ai miei avi e dal 2013 non mi cimento su una gara con dislivello altimetrico inferiore ai 50 metri. Ne è testimonianza la fatica profusa fin dal primo km, dove ad essere buoni solo le “solite” signore che si incontrano alle tapasciate locali mi restano dietro. Nel secondo km cerco di capire se la velocità di crociera impostata sia sufficiente a sfilare davanti ai miei tifosi appostati più in là con la sufficiente padronanza dei muscoli facciali per abbozzare un sorriso. Al cartello del terzo km mi convinco che in fondo sono quasi a metà gara e nessuno mi ha ancora superato. Al quarto chilometro ho nel mirino il gonnellino da trail di una bionda dell’Avis Marathon di Verbania. Decido per il momento di non procedere ad ulteriori progressioni al fine di studiare la situazione. Così arrivo al quinto, il cui cartello traguardo di impeto dopo la volata sparata in faccia allo zio che applaude divertito “il nipote cinquantenne che si ostina a correre in braghette corte”. Dopo il sesto km mancano due curve al gonfiabile finale. Mi venisse un infarto se non vado a prendere quel pirla che, mentre leggevo il giornale in auto nell’attesa della partenza, mi sfrecciava davanti a fare ripetute con la bandana della crazy, manco fossimo ad una skyalp. Missione compiuta e frustrazioni quotidiane sopite in questo pomeriggio di tacco 12 e gorgonzola.




4 novembre 2016

XC time!

Arriva questo periodo dell'anno in cui i prati verdi si riempiono di fango, si coprono di foglie e una leggera bruma vi staziona a bassa quota. Ed io ai margini del campo, con l'occhio vacuo della giovenca al pascolo, sono assalito dalla voglia di rispolverare le mie chiodate, buttarmi dentro a questi prati, correre dietro al concorrente immaginario o reale che mi precede, frenare ad ogni curva secca e poi riaccelerare. Il cuore che mi scoppia nel petto, le gambe che vanno fuori giri, i tacchetti che lasciano una scia di fango e gioventù perduta.

Così stamattina il solito giro si è trasformato in qualcosa di più della solita "pisciatina". 3km3 al di sopra della mia solita velocità di crociera mi sono sembrati sufficienti per dichiarare iniziata la preparazione alle campestri. Mioddiochevoglia!

30 ottobre - Trail del Monte Casto

Sole che scalda il viso, colori che scaldano l'anima. Fatica, sudore e buona compagnia. Anything else? Trail del Casto.

Ci sono trail a cui torni ogni anno volentieri. E come per molti altri anche per me il Trail del Monte Casto è una meta fissa dell’autunno sui sentieri. Quest’anno poi ho optato per la corta: 21 km tra camminata veloce e corsa lenta in piacevole compagnia di un amico e di un clima stupendo. Non che le condizioni bucoliche esterne mi abbiano risparmiato la fatica e il sudore che il portare un pettorale necessita. Però dopo tutte le gare “ultra” di questo 2016 i chilometri di oggi mi sono sembrati davvero pochi. Tanto che mi hanno permesso di assaporare momenti di lucidità mentale cui non ero abituato correndo distanze (a me) proibitive, consentendomi così di apprezzare maggiormente pietre, fango, foglie gialle e radici in superficie. Tornare, poi, a casa ad un’ora ritenuta decente dal resto della famiglia sapendo che qualcuno non è ancora arrivato al traguardo è un’iniezione di fiducia che quest’anno mi è proprio mancata. Cercherò di non farci l’abitudine.

6 ottobre 2016

1 ottobre - Eolo Campo dei Fiori Trail

Personalmente c’erano due motivi per partecipare alla prima edizione dell’Eolo Campo dei Fiori Trail: che era la prima edizione appunto (e quest’anno con le prime edizioni statisticamente ci ho dato); secondo, che occorreva mettere il sigillo al concorso della mia società Team Insieme Trail. A dire la verità ce n’era un terzo di motivo. Nei miei percorsi domenicali scendendo dal Forte a Orino, dopo avere bevuto alla fontana in centro, di default giro a sinistra per tornare alla base. Ma una domanda mi ha perseguitato in tutti questi anni: a destra cosa c’è, dove si va? Adesso lo so, ma forse era meglio non saperlo: km e km di saliscendi, certe volte accanto alla strada provinciale, altre volte nel fitto del bosco, ma sempre km e km, e peggio ancora, da correre per la maggior parte. Una fatica sovrumana di questi tempi per il tenutario del blog. Comunque …

… partiamo ed è subito fatica. Qualche tornante per lasciare dietro di noi il lido di Gavirate e salire nel bosco  che ci porterà fino ai 1000 metri del Forte di Orino. Le gambe sono già stanche dopo i primi km. Metto le quattro frecce, accosto e la modalità eco viene subito inserita. Dopo un’ora e venti finalmente scollino in una giornata grigia come il mio umore, visto che i miei soci si sono già tutti dileguati nella successiva discesa verso Orino. Arrivato in paese giro a destra (finalmente!). E’ chiaro che la fatica esiste e il mio fisico non ne vuole più sapere in questo periodo. Nei tanti km che si succedono gli unici momenti da ricordare sono a) il ristoro a Castello Cabiaglio, dove un preadolescente, novello Van de Sfroos, con chitarra e microfono fa dimenticare le secchiate d’acqua che scendono a profusione e b) l’inizio dell’ascesa verso il Sacro Monte (almeno non devo far finta di correre). In salita riprendo colore - intendo in faccia e di umore, passo per le Cappelle del Sacro Monte e arrivo alle Tre Croci. Mi butto sulla prima di queste in un tana libera tutti, pensando che le fatiche di giornata siano finite. Invece no. E’ tanta la voglia di correre questo trail che mi sono documentato di conseguenza. Mi frullo in rapida (sifaperdire) successione anche la salita alla Punta di Mezzo e una crestina che avrebbe un significato percorrerla solo in assenza di nebbie. Gli ultimi 8 km mi ricordano quelle esperienze da viandante-pellegrino, dove l’unica buona notizia è riuscire a trascinarsi per un altro km. Chiudo cercando di dare una motivazione competitiva alla giornata. Supero l’unico socio più in crisi di me e sprinto sul lungolago in modo politically uncorrect davanti ad un tapascione che si attarda aspettando il figlioletto (si ho fatto anche questo e oggi non me ne vergogno).


Centrato l’obiettivo minimo (portare a casa l’ennesima prima edizione di un trail e il concorso societario) con il massimo sforzo, mi scolo l’ennesima birra (qui ce n’era a tutti i ristori, al contrario della mia ultima esperienza). Seduto sulla riva del lago attendo che il cadavere ritorni in sé. Zero al Tapabada e dieci agli organizzatori. Bravi in tutto, ma soprattutto ad avere tracciato un percorso logico e filante, quelli richiesti dai moderni urban trailers, quelli che: “sto preparando la maratona autunnale e questo trail è ideale come lungo” (sigh!)

27 settembre 2016

(Dell') età e (della) stanchezza

Chi ha la doppia fortuna di essere abbonato alla newsletter di Orlando Pizzolato e di aver superato (indenne) i quaranta avrà letto con piacere il numero 404 della suddetta, dove si sottolinea come "per moltissimi corridori questa soglia di età determina già i primi evidenti segni di invecchiamento atletico". Il buon Pizzolato, novello Yoda, esorta nell'epistola i suoi discepoli Jedi a coltivare la forza (almeno una volta alla settimana) per non sentire, o meglio per ritardare, l'effetto stanchezza muscolare che pervade noi diversamente giovani podisti amatori. Il passaggio alle distanze lunghe, maratona e ultra, continua il Vate, è giustificato dalla perdita di quelle componenti che appartenevano alla nostra gioventù (appunto forza ed elasticità muscolare e, aggiungerei io, spermatozoi a gogò). Ma il progredire dei chilometri non evita questo stato fisico e dell'anima in cui versiamo costantemente noi ultra  q&t (quarantenni e trailers).

Sarà che quest'anno mi sono cimentato in prove ben superiori alle mie possibilità, che mi hanno tenuto là fuori per parecchie ore, resta il fatto che mi sono sentito punto nel vivo, come ogni podista ultra q&t traboccante del proprio ego, e sono corso ai ripari.

Così da due sere sono tornato agli allenamenti veloci(?), vale a dire ad un'andatura superiore a quella di una camminata in salita, e a sorbirmi qualche minuto di potenziamento muscolare. Sono certo che tra qualche settimana, cancellata dalla posta in arrivo la newsletter di Pizzolato, mi passerà anche questo velleitario bisogno di "far girare le gambe" ad andature pericolose per un ultra q&t.

Intanto che la forza sia con me!

15 settembre 2016

10 settembre - Dolomiti di Brenta Trail (64K)

Se c'è una bella al mondo sei più bella tu
Se c'è chi è troppo bella tu lo sei di più
Sei qui davanti a me ma non mi sembra vero
Accidenti come sei bella

I versi del Vate mi frullavano in testa nei giorni precedenti il DBT, ma non mi capacitavo il perché di tanta insistenza. Poi arrivo a Molveno e nel giro di 24 ore comprendo a cosa andava dietro il cervello. Essere in Brenta è tornare all’infanzia, ai luoghi in cui ho trascorso le estati più ricche, gli inverni più nevosi. Guardo verso il Campanile Basso anche se dal lago il panorama non è quello che ammiri qualche km più in là, ad Andalo. Ma qui si ha la percezione di cosa incombe sopra di te, la sensazione che domani sarai lassù a giro per chissà quante ore. La notte è agitata: allenamenti zero nelle ultime tre settimane, dimentico che per un tapascione arrivare al traguardo dopo 64km è questione di mettere un piede avanti all’altro, niente di più, niente di meno. E poi ho il piano B, stringere i denti fino al 30esimo e poi mollare la banda e tornare a valle (che già ne farei oltre 40).



Si parte con buio e caldo porco per questo periodo. Luce spenta che tanto ci sono gli altri e una volta nel bosco prendi la scia; chissà mai che si debba stare veramente fuori fino alle 23 della tarde e allora la torcia servirà carica eccome.


Andalo alle prime luci, la Paganella stuprata dalle piste da sci di fronte a me, il cartello AFFITTASI davanti al villino dello Jacopo di Cannaregio. Quante emozioni, quanto spleen. Poi su per il 301 in cerca di orsi. La salita è lunga, un po’ a strappi. Si sale tutti insieme. Dopo il primo ristoro inizia il single track e più avanti la deviazione della 64K ci porta nella Val dei Cavai. Qui inizia la wilderness del Brenta, che ci accompagnerà fino al 30esimo. Stupenda e fredda questa valle. La nostra è una lunga fila transumante, il silenzio di un luogo lunare rotto solo dal rumore dei bastoncini che scivolano sulla nuda roccia. Qualche scatto fotografico dalla Sella del Montoz e poi si riprende a correre, finchè c’è benzina. L’aria calda mi costringe a bere spesso. Mi servo alla fontana delle malghe sparse sul percorso. 


Al ristoro di Malga Termoncello prendo tutto il tempo necessario a mangiare e bere (solo acqua e the, coca zero, nel suo significato reale, non dietetico). Riprendo e la mortazza balla nello stomaco. Sempre meglio dei gel che tengo nello zaino e che proprio non vanno giù. Si passa sopra il lago di Tovel (che spettacolo!). Impossibile non fermarsi e far partire gli scatti. 




Riprendo fiato, mentre il bosco cede alla radura ed io ai primi segni di stanchezza. La sete è pressante, cerco di stare in coda ai gruppetti che mi superano, ma è impossibile. A Malga Flavona la salita mi prende allo stomaco. Ripida e breve fa male. Rifiato sul successivo altopiano di Campo Flavona e arrivo al Passo della Gaiarda (30esimo km), obiettivo minimo di giornata. Mi guardo attorno: solo due ragazze a fare la spunta dei numeri. Tornare indietro non se ne parla. Sono ampiamente dentro il cancello orario. Allora su verso il Passo del Grostè. Il sottostante Rifugio Graffer, raggiunto con elegante scodinzolo su piste da sci polverose, segna metà gara. Qui si avvistano i primi turisti, ma non si vede ancora la coca cola. Decido allora di investire 3 euri per una sana bevanda scura e gassata (no niente Guinness sorry!). Telefonare, mangiare, whatappare, bere: il “gioca jouer” di noi trailers. Da qui in poi di ritiro non se ne parla, non fosse altro che per il tempo che dovrei impiegare per tornare a Molveno con i mezzi dell’organizzazione. Allora un, due, tre in marcia. 


La discesa verso Vallesinella si fa in un botto, fischiettando ai turisti per aprire la pista. Poi è tutta risalita, interminabile con i merenderos ad incitarti o a guardarti strano. Al Rifugio Casinei sono già stracco, ma di strada per il Tuckett ce n'è ancora (400 metri più in alto). Vado fuori giri. Tocco il punto più basso della giornata e chissà se tornerò a galla. Arrivare al rifugio è un calvario senza stazioni (di servizio). Il cielo diventa nero - sarà forse suggestione? Se i bambini, che incontro salendo, cambiassero direzione, mi svernicerebbero pure loro. Arriva, arriva, ma non arriva mai ‘sto rifugio. Poi le classiche imposte bianco-celesti dei rifugi SAT si stagliano sopra di me.


Mi attendono tre tazze di brodo caldo, bicchieri di sana sprite e formaggio. Ne mancano 23 a Molveno. Un tipo si avvicina al gestore del rifugio e gli fa “Ho qualche problema. Come faccio a ritirarmi?”. Al pensiero di dover tornare giù fino al bus che lo attende qualche km più sotto si accosta alla balaustra e vomita tutto. Intanto il mio sballo è passato, cambio la maglia, mentre i tuoni si avvicinano. Lo spettacolo del Brenta è da cartolina: Crozzon, Cima Tosa, Campanile Basso. 


Un ristoro volante davanti al rifugio Brentei che fu di De Tassis e via per il sentiero che risale l’alta valle. In fondo si staglia in tutta la sua verticalità la Bocca di Brenta. Temo il freddo che la pioggerellina porta con sé, il vento ed il buio, che mi avvolgerà prima del mio arrivo. Ma ugualmente guardo verso l’alto e sento la mia impresa più vicina. Minuscoli puntini risalgono il ghiaione che porta alla Bocca.


Ci arrivo anch’io, ma con le gambe molli ed il ritmo di una Duna imballata. La salita è l’ultima di giornata (lo deve essere per forza!). La foto che scatto allo scollinamento mi ritrae in una smorfia di dolore, ma sereno. 


Al rifugio Pedrotti sono quasi 12 ore che sono a giro e 50 km nelle gambe. Mi godo la pace del momento e del luogo. Non vorrei essere da nessun'altra parte se non qui, con il solo gracchiare delle taccole che volteggiano sopra di noi a spezzare l'incantesimo del silenzio e dei miei ricordi.



Adesso giù fino alla fine. Selvata, Croz dell’Altissimo, quante volte sono passato da questi rifugi nella mia gioventù. Mai però così stanco. E’ un lento cammino, mentre arranco sul falsopiano che porta al Pradel. Il lago è lì sotto, ma il giro che gli organizzatori hanno pensato per noi è ancora lungo, pesante più per la testa, incapace di gestire questi km inutili, che per il fisico. L’avventura si chiude che il buio è ormai pesto sulle rive del lago. Poca gente, distratta intorno al gonfiabile, fa da spettatrice all’arrivo di uno degli ultimi tapascioni. Oltre 14 ore per 64km e poco meno di 4000 m di dislivello, ma ce l’ho fatta! Il ristoro finale è ormai scomparso, ma non la voglia di incazzarmi per questo scherzo di cattivo gusto. Senza un goccio d’acqua mi sento ancor più un sopravvissuto. Se poi non ti sei portato il ticket del pasta party a spasso per il Brenta tutto il giorno ti tocca anche fare a meno della birra. Eppure oggi va bene così: incazzato e felice.


20 luglio 2016

16 luglio - Bettelmatt Ultra Trail (ovvero del diletto)

Agli amici del baretto che mi chiedono della fatica nel fare 83 km su e giù per i monti rispondo loro che dovrebbero provare a stirare 6 camicie (rigorosamente manica lunga) in una torrida sera d’estate per capire cosa è la vera fatica. Non che la BUT sia stata una passeggiata, ma la cadenza triste del cercatore di funghi mi ha permesso di schivare la tagliola dei cancelli orari messi un po’ alla c###o e di arrivare al traguardo di Riale poco prima che l’uomo scopa ed il buio mettessero la parola fine a questa ultra della Val Formazza.

19 ore sulle gambe sono lunghe anche da raccontare, ma agli amici del baretto, che intanto si godono l’òra, il vento che soffia dal lago, è sufficiente qualche immagine per diagnosticare la grave malattia mentale del tenutario di questo blog. Per esempio l’immagine della partenza alle 3 della mattina da Ponte insieme ad altri 200 frontali accese, pronte ad arrampicarsi sulla gippabile che porta al lago del Vannino. Poi in rapida successione la salita al passo del Busin e alla Bocchetta della Valle dove l’alba ci incontra quasi 1400 metri più in alto rispetto al punto di partenza per donarci l’incanto delle più famose tra le cime lepontine. Da lì lungo i prati del grande est e poi in picchiata verso il Devero. Al 27esimo km finalmente il primo ristoro ed una colazione decente, dopo il pan bauletto e mortadella ingoiato alle 2.30.


Ora gli amici del baretto, con la coda dell’occhio ancora attenti alle belle tedesche che sfilano verso la spiaggia della Porfina, vogliono sentire parlare di gesta eroiche, di dislivelli macinati. Ed io giù ad esaltare la lunga salita alla Scatta di Minoia che ci riporta verso il lago del Vannino o ancora quella secca verso il Passo del Nefelgiù. “Ma ragazzi sono le discese quelle che mi spaccano, lo volete capire!” E’ lì che il Tapabada perde terreno, con le Akasha che mostrano tutta la loro gioventù.


Dolorante ai piedi e claudicante nella testa quando arrivo alla base vita di Riale sono pronto al ritiro. I 50 km alle spalle mi sembrano già un’enormità e tornare qui dopo averne macinati altri 33 è un’idea che mi affascina tanto quanto vedere Reazione a catena. Ma complice il pensiero degli amici del baretto che rimarrebbero senza lieto fine ed un piatto di pasta il Tapabada, rifocillato e risuolato con delle più generose Hoka, riprende il cammino (perché di questo ormai si tratta) verso i 3000 metri del rifugio 3A. L’apprensione di chi mi guida in questa avventura è il cancello orario successivo. Io invece mi godo la fatica immane che porta verso il rifugio mai toccato, ma così ricorrente nei miei pensieri giovanili.


Gli amici del baretto, finalmente catturati alla mia causa, sono lì con me ad affrontare le rampe che dal lago Morasco salgono prima ai Sabbioni e poi al Claudio e Bruno. Non degnano nemmeno lo spritz gardesano in bella vista che il Fabio ha servito loro e si mettono in coda su quel sentiero che sembra non finire mai. Là in alto il 3A mi guarda storto, ma io non mi curo. Sono concentrato a sentire sulla faccia e nelle orecchie il sibilo del vento patagonico di questo tardo pomeriggio limpido e abbagliante. E’ l’unico rumore che si percepisce nell’immensa vastità di blu, verde e bianco che l’occhio può abbracciare. 





Arrivato al ristoro del 3A ancora non è finita: manca la discesa a patella dal ghiacciaio del Siedel, il passaggio al rifugio Città di Busto e la planata sulla piana del Bettelmatt 5 minuti prima che chiuda il cancello orario. “Amici, non vi sto a raccontare gli ultimi 17 km. Subito la salita al passo Gries, poi i nevai verso la capanna Corno, e ancora il passo S. Giacomo, ultimo dislivello prima dell’arrivo”. Preservo la mia testa e le mie gambe da ricordi penosi. Siamo agli ultimi 5 km. Il lago Toggia è interminabile. Sfila lento alla nostra sinistra prima della picchiata (!) finale verso il traguardo. E’ l’idea di dovermi fermare a cercare la frontale nello zaino e farne ulteriore uso a provocare in me un sussulto d’orgoglio e a riaccendermi i led del sistema nervoso. Aziono i flap e l’ultimo km mi sembra volare via. La passerella finale al chiaro di luna è per pochi intimi. Qui hanno già sbaraccato. Rimane un tabellone da firmare e una bionda ad immortalare il Tapabada e la sua guida indiana. La tanta fatica mi impedisce di gustare appieno l’emozione del momento, del #nonsimollauncazzo e del celodurismo che ti porta a fare ‘ste cose qui. Riale, deserta e buia, diventa all’improvviso una realtà per i miei piedi ed una sorgente per il mio spirito. La festa proseguirà domani, ora c’è tempo solo per una doccia ed una pizza, perché le grandi distanze ti fanno apprezzare solo l’essenziale, il qui&adesso.

Gli amici del baretto, finalmente a bocca aperta, pare abbiano compreso il senso ultimo dell’inutile. Poi però salta su come sempre il Toni a chiedere “Ma chi te lo fa fare?” Ed allora anch’io come sempre: “Pacialacc, ma per diletto, per il mio unico diletto! Per cosa sennò?”.

4 luglio 2016

But #3

A fare i brillanti poco ne viene (Pellè dal dischetto insegna). Così dopo avere fatto tremare la famiglia snocciolando un programma di allenamento basato su sudore e assenza prolungata dal desco famigliare, mi ritrovo la domenica mattina con D+ settimanale pari a zero.

E anche questa domenica con aria frizzante e zero nuvole in cielo sarebbe di quelle da portare la famiglia in gita sulle Alpi per godersi una polenta al primo rifugio aperto come da manuale dei "merenderos". Purtroppo (?) non ho fatto i conti con il resto della ciurma, la cui voglia di alzarsi dal letto è direttamente proporzionale a quella del Tapabada di sciropparsi n. km in auto per giungere alla prima protuberanza alpina.

Ne deriva una partenza ritardata, un percorso breve, da scalare prevalentemente sotto la stecca del sole. Chiudo pure in largo anticipo sul previsto. Le nuove NB V3, alla prima uscita, mi stampano due belle vesciche sul retro, e confermano la tesi che se la vocina ti dice di stare a letto tu devi assecondarla... anche in giornate come questa, #but o non #but.



22 giugno 2016

But #2

Tra le cose più improbabili, ma anche memorabili della vita podistica (e non solo) del tenutario di questo blog ci sarà sicuramente la BUT. Una ultratrail che per me vuol dire esplorazione. In questo caso più di me stesso che dei luoghi che attraverserò. Sarà sopratutto una non corsa, piuttosto una lunga passeggiata che speriamo di completare nel tempo limite. Ma qualora non si arrivasse in fondo non starei a dolermene più di tanto. Senza scomodare frasi celebri su viaggi iniziati con il primo passo il mio viaggio è già iniziato con la ricognizione del percorso. E' stato bello perché con la mia guida indiana abbiamo cercato il percorso in mezzo alla neve, lo abbiamo abbandonato e poi recuperato ... insomma abbiamo esplorato. E questo è il senso che la BUT ha per me.


16 giugno 2016

11 giugno - Licony Trail (24K)

Commentare un trail in cui ho beccato 50 minuti da un tale Mastrota Giorgio, di sicuro non assurto alle cronache per le sue doti di trailer, è demotivante, ma facciamo anche ‘sto bagno di umiltà.

Pioggia poi sole, poi ancora pioggia a Morgex. Vorrei smettere di parlare del meteo quando scrivo delle mie gare, ma quest’anno va così. Giacca si, giacca no, pinocchietto si pinocchietto no. Alla fine parto bardato da palombaro e sulla prima rampa devo improvvisarmi strip-teaseuse in movimento per godere dei primi raggi di sole… no delle gocce d’acqua … beh insomma deciditi Giove Pluvio! Tutto ciò mentre cerco con la mano libera di dare più cinque possibili alle due ali di bimbi forniti di campanaccio che fanno da corona a questo meraviglioso paesaggio.


Non che l’abbigliamento faccia molta differenza. La salita verso l’alpe Licony è tosta e la faccio in trance agonistico, con il risultato di essere già “spantegato” (grazie Michele, adesso che ho provato sulla mia pelle il termine posso ammettere che rende bene l’idea) nel punto più duro dell’ascesa. Mi fermo per riprendere fiato e soprattutto tranquillizzare quello davanti a me che dal tanto ansimare che faccio continua a voltarsi per vedere se schiatto. Abbiamo attraversato un canalone tutto attrezzato da salire a 4 zampe. Fortuna che passa l’elicottero per delle riprese a bassa quota. Mi fermo ancora un po’ e gesticolo vistosamente in direzione del velivolo per sincerare gli occupanti che tutto è a posto (no dai scherzo). La pendenza ora diventa più consona alle mie possibilità: è una pace per gli occhi e i polmoni. I campanacci di tre tifosi tre, che fanno casino come fossero il migliaio di fan del Ghedina in trasferta, mi guidano verso le ultime rampe prima dello scollinamento, che però non arriva mai. Tiro il fiato e giù a punciòt. Il ristoro del nono km all’alpe Licony cade a fagiolo. Pieno di libagioni che lascio sul piatto, mi consento solo una fetta di salamino. Poi la discesa su strada forestale e lungo un traverso in mezzo al bosco che fa volare tanto è piacevole calpestarlo. Difficile concentrarsi sulla gara dato il contesto in cui sto correndo. Il ristoro di Planaval al 15esimo arriva da sé. Rinfrancato dalla bresaola locale riprendo slancio, superando i soliti cadaveri (no, no, questa volta non guardate me). Qui veramente il sentiero è morbidissimo, trapuntato da aghi di pino che mi ci fermerei a fare una pennica.

Ormai alle viste di Morgex c’è tempo per l’ultima salita breve, ma tosta. Poi il caldo di mediodìa spegne i pensieri e anche le forze. L’ultima corsettina è per superare le scope della lunga, qualora valesse qualcosa. L’esaltazione di ricevere quale omaggio per il finisher una caraffa da riempire (uno dei tanti meriti di questa organizzazione) va a farsi benedire appena mi giunge notizia che il suddetto GM è arrivato con largo anticipo rispetto al tenutario di questo blog.

La crisi di mezza età esiste solo per il Tapabada?


6 giugno 2016

But #1

Mi consola pensare che non sarà per sempre. Nel senso che un giorno smetterò di gettarmi in folli (tali solo x me) avventure podistiche. 

Causa mancanza di socio accantono, ma solo per il 2016, il Sentiero Frassati TT.AA. e passo ad un più modesto trail da 80 km(!) in mezzo alle montagne di una vita, sperando che dopo il 18 luglio non si intenda quella passata.

Nell'attesa di conoscere la concretezza della suddetta affermazione procedo ad allenamenti mirati, come si addice ad un padre di famiglia libero da impegni. Approfitto dunque del lungo ponte per metterci dentro ripetute in piano, anzi sull'asse (3 camicie, due jeans e 4 magliette), in salita, o meglio sulla scala (una tapparella e due armadi) e un po' di resistenza: 2 giorni 2 passati con mia figlia senza il supporto fisico della moglie.

Esco dal weekend provato, ma più consapevole delle mie possibilità (cit.) in vista della #but.


20 maggio 2016

25 aprile - Orna Trail (34K)

Resoconto un po' palloso e in overtime. Più che altro per tenerne traccia.

PS: in futuro ricordarsi di non iniziare la stagione con questo trail. 2 volte su 2 la mia presenza è da paragonare a quella di Montolivo su un campo da calcio

C’erano due buone ragioni per starsene a casa oggi: 1. dedicarsi alle commissioni del sabato, tenendo fede ai propri impegni famigliari; 2. non prendere l’ennesima paga dal Pres (mettetele voi in ordini di importanza). Invece oggi sono stato adottato dal gruppo dei Trailers di notte ed in una giornata pseudo-autunnale ho risalito il fiume Toce fino ad Ornavasso - quale posto migliore per festeggiare con anticipo la Liberazione se non nei territori della Repubblica dell’Ossola?

I 34 km del percorso lungo tracciano un largo 8 sui monti sopra Ornavasso. Tornanti in tutte le salse (asfalto: sempre troppo, ciottolato: quello della Linea Cadorna, fango: frutto della pioggia mattutina). Il tracciato era di quelli che giornalisti capaci, ma un po’ pigri definirebbero nervoso. Io meno prosaicamente lo classificherei un calvario, o meglio una via crucis, come quella effettivamente percorsa nell’ultima ennesima salita.

Il Tapabada era partito con l’unico obiettivo di non farsi del male (intendo morale più che fisico, essendo quest'ultimo da includere già all'atto dell'iscrizione). Ma ben presto il secondo ha preso largamente il sopravvento. La vis pugnandi si è spenta lentamente, ma inesorabilmente, in percentuali direttamente proporzionali al numero di salite affrontate (me ne ricordo tre degne di nota, lunghe e assassine). I titoli di coda mi hanno visto sfilare a 100 metri dal traguardo davanti ad un Pres già rifocillato e pronto per la doccia. Di scarso effetto sul mio morale è stata la vincita della lotteria finale: una partecipazione  gratuita a due gare future (se lo stato di forma sarà questo al momento di gareggiare meglio farne oggetto di donazione).


19 maggio 2016

14 maggio - Val Borbera Marathon



Per correre la Val Borbera Marathon occorre prima sapere come pronunciare il nome stesso di questa valle: Borbèra o Bòrbera (la soluzione a fondo pagina). Poi occorre arrivarci, stando attenti ai troppi autovelox disseminati fin dall'uscita dell'autostrada lungo la provinciale che risale la valle. Giunti in questo Eden (perché così me lo immagino, nascosto e tanto verde da dare quasi fastidio), serve poi trovare un parcheggio che non sia nel mezzo delle gigantesche pozzanghere che costellano l'area adibita alla sosta. Infine è necessaria la pazienza (caratteristica fondamentale del trailer) che viene messa a dura prova già al ritiro pettorale, quando la felpa promessa nel pacco gara scopri che è esaurita - "ma dammi il numero di pettorale che te la spediamo a casa ... semmai". 


A questo punto, e solo a questo punto, puoi schierarti ai nastri di partenza della nuova e meno blasonata gara del pacchetto Porte di Pietra. Ma ormai le energie sono al lumicino e il Tapabada non può che fare ciò che gli riesce meglio in questo primo scorcio di stagione, ovvero camminare a ritmo veloce fino a quando il motore non fonde. L'ennesima passeggiata, come la definirebbe la mia (ex) guida indiana, che tuttavia mi ha permesso di apprezzare ancor più le meraviglie nascoste che gli Appennini riservano a chi distoglie per un momento solo lo sguardo dalle più blasonate Alpi.


Una lunga salita fino alla cima di giornata porta via i primi 15 km, poi la discesa in zone di funghi e cinghiali, prima della seconda tosta ascesa del percorso. Adesso mancano gli ultimi dieci km, ricchi a più non posso di saliscendi, che al sottoscritto sono sembrati moltiplicati (almeno) per due. Privo di fantasia letteraria, mi accontento di definire interminabile e faticoso questo ultimo tratto, nonostante il sorso di birra gentilmente scroccato all'ultimo ristoro e la compagnia ricevuta dagli altri cadaveri incontrati sulla via. Sarebbe comunque finita in gloria (la mia passeggiata), se non fosse terminata la birra del ristoro finale, giusto qualche minuto prima del mio arrivo. Un altra prova di pazienza ed una buona ragione per tornare ad assaggiarla il prossimo anno ,,, e ritirare il pacco gara di questa edizione.

Soluzione: quando ho iniziato a scrivere il post ero sicuro fosse Borbèra, adesso non più.

31 marzo 2016

Sentiero Frassati #1


“Ogni lungo viaggio inizia con un primo passo” Laozi

Percorro il triste bitume che mi separa dall’inizio del Sentiero Frassati con la convinzione che l’approccio scientifico (perlustrazione del percorso, valutazione dei suoi tratti più duri, ecc.) sia la premessa per correre/camminare i 95 km che separano il Santuario della Madonna della Grazie ad Arco con il Santuario di San Romedio in Val di Non nel modo più responsabile ed efficiente possibile. 


Peccato che una volta lasciato il cartello indicatore di inizio sentiero non si trovi altra segnaletica alla vista. Salgo il sentiero che mi trovo di fronte prima di essere fermato da un cartello di proprietà privata. Quindi scendo, vado a sinistra, fino alla curva. Nulla. Torno sui miei passi. Prendo la destra. Nessuna indicazione. A ritroso seguo il triste bitume fino al segnale indicatore scorto il giorno prima. Ma ormai di chilometri su asfalto ne ho percorsi troppi. Salgo nella nebbia fino al castello di Tenno. Mi accerto che il sentiero sia finalmente quello giusto, poi faccio dietrofront e torno a casa. Se questo è il primo passo chissà come sarà il resto del viaggio!


PS: tornato in auto nel pomeriggio al punto di partenza, ne approfitto del materiale rotabile a disposizione per cercare nei dintorni segni illuminanti. Li trovo sulla strada asfaltata oltre la curva dove mi ero fermato qualche ora prima. Ecco la prima lezione al viandante: PERSEVERARE.

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