9 ottobre 2012

7 ottobre - Como-Valmadrera

La luce del giorno mi scova nelle ultime file del pullman, direzione Como. Per lo più sono laghè e antichi liguri scesi dalle valli. Qualche foresto come me. C’è pure un sannita tra di noi, con i baffetti da maresciallo dell’arma o impiegato delle poste. L’è miga di noss, l’è foresto! E chissenefrega! Le montagne sono democratiche, non serve saper nuotare per frequentarle. La cronaca della mia prima Como-Valmadrera, la traversata del triangolo lariano, è di retrovia as usual. Quella che per intenderci quando ti fermi ai ristori ti chiedono anche gli alpini (NdT bravi tutti e complimenti per l’assistenza) quanti ne hai dietro. “Ma mio nonno buonanima, che aveva la penna nera come voi, in Russia mica si girava indietro per far la conta degli altri poveri cristi con le pezze al culo o dei russi mangiabambini!”.


Ci scodellano alle 7.45 a Como, sul ramo meno famoso del lago. Siamo noi e qualche pescatore. Al pronti via sono ancora a smanettare sul gps che non vuole saperne di partire (si metterà in moto a Brunate). Io invece parto e dopo poche centinaia di metri è subito salita su bella mulattiera acciottolata. Come sempre in queste situazioni c’è chi sgomita e chi va piano, difficile prendere il proprio ritmo, modulare il passo al respiro. Fortunatamente si alterna salita a falsopiano a beneficio di un breve recupero. Procediamo accompagnati da truppe di escursionisti sbarcati dalla funicolare e bikers a chiedere spazio e farsi belli con la tecnologia sotto al culo. Rifornimento alla capanna CAO (e già si sente odore di spezzatino). Poi su, prima il Boletto e poi il Bolettone. Ci si arriva per sentiero infido e scivoloso (per il secondo trail consecutivo mi rammarico di aver lasciato i bastoni in auto), mentre la fila dei trailers si sgrana. Il primo cancello al culmine della salita lo passo con 30 minuti di anticipo. La discesa è scivolosa quanto la salita. Piombo sul ristoro in derapata, poi nel bosco si fila via con maggiore sicurezza. Ora tocca affrontare il Palanzone. In cima la nebbia, da dietro incalzano. Vado su al mio passo, senza troppo affanno, sfruttando gli scalini naturali che offre il terreno. Ci arrivo bene, la nebbia offre suggestioni, ma smorza il panorama. Gli alpini, invece, offrono vino, c’è anche della coca(cola) benedetta. Adesso giù a freni tirati che sembra di pattinare sul ghiaccio, salmoni controcorrente piombiamo sugli escursionisti che salgono. Difficile controllare la traiettoria nell’erba viscida. Sono una decina di km in discesa verso Canzo. A passo leggero si avanza con compagni d’avventura raccolti per strada, a fare lo slalom tra frotte di famiglie in cerca di castagne (“ma da quando si mette il pettorale per andare sui monti”). Rifugio Marinella e poi Canzo. La strada si asfalta ed invita ad allungare. Caldo e code di auto in gita. Oltre la stazione delle Nord, poi su verso Fonte Gajum. Mi fermo a fare stretching, un po’ di crisi, come sempre parte dallo stomaco (accidenti ai gel). Si parla, ci si incita a vicenda. Finalmente il secondo cancello, alla fonte. Si traguarda in 3h30’, in anticipo di una mezz’ora. La strada ora la conosco. Il falso piano è traditore, ti dice corri, ma tu vedi lassù dove devi arrivare e dici no grazie. Così cammino a passo spedito, la crisi è arrivata e se n’è andata. Al rifugio III° Alpe già scodellano piatti di polenta ai gitanti incuriositi. Per me coca e sali minerali. Una telefonata a casa per sapere se le lasagne sono venute bene (forma di testamento occulto), due chiacchiere con un trailer preso da ipotermia, fa caldo ma lui si tiene la giacca. "Ritirati. No. Ti capisco". Riparto insieme ad un gruppetto. Ora viene la parte più tosta dell’intero percorso e 25 km già nelle gambe. Tengo il mio passo e presto le voci si perdono nel bosco lì sotto. Raggiungo il sannita del pullman. Chiede quanto manca allo scollinamento, si rammarica per non essersi ritirato al rifornimento precedente. Lo incoraggio, faccio appello ai suoi avi, unico popolo italiota, insieme agli antichi liguri delle valli qui in fondo al lago, a resistere indomito alla Dominante. Lo lascio maggiormente perplesso. Più avanti nonno alpino e nipote a protezione di una svolta. “Questo deve essere uno degli ultimi” mi apostrofa il giovine. Il nonno lo zittisce per non infierire sulla fatica dei vinti. Mi fermo a prendere fiato.
Quanto manca? tanto già lo so. 
Quanto ti hanno detto quelli sotto? 
Qundici minuti. 
Sono almeno venti, quelli non ci sono mai saliti da qui. 
Ed i primi? 
Veloci, ma non c’era battaglia, il primo li staccava di un bel pezzo. 
Chi era? 
Un foresto, di Lecco! Ah be’.

Finalmente la croce dei Corni. Qui sembra estate, impossibile non fermarsi a fare qualche foto al ramo più famoso del lago. 
Da lontano sento qualcuno che mi incita chiamandomi per nome. Mi avvicino: un signore e tutta la famiglia mi danno il cinque, lui con cannocchiale, la figlia con l’elenco dei partecipanti sulle gambe. Ci incoraggia uno ad uno. Vero spirito trail, vera commozione. Più avanti al rifornimento del rifugio SEV gli alpini vivono un futuro meno incerto: la scopa della corsa è già passata dal III° Alpe, i russi si avvicinano. Ma questi alpini non si preoccupano: tra poco potranno gustarsi il panorama con la slinzega ed il rosso che fanno bella mostra di sé tra sali minerali e cocacola. Io prendo solo acqua e mi butto in picchiata. Prima è un toboga scivoloso a curve strette poi la pendenza si addolcisce e mi stupisco anch’io nel vedermi zompare da un sasso all’altro (che stia abituandomi alla discesa?). C’è tempo per superare qualche socio un po’ cotto e fare qualche bella foto. Pure un video negli ultimi 600 metri, ad immortalare il momento. Gli applausi di qualche spettatore, un cinque a due bimbi prima dello striscione. 5h41’, 175esimo su 209, senza sgomitare per arrivare 174esimo.  
Complimenti! 
E’ finita qui? 
Sì, perché ne volevi ancora? 
No, per oggi basta così.
Fatica ben spesa, gustando momenti d’autunno: calpestare le foglie gialle sopra Brunate, respirare la nebbia grassa sul Palanzone, immaginare scampoli d’estate sulle cime sopra i colori indefiniti del lago.
Nello spogliatoio cercatori di funghi e raccoglitori di castagne, come il sottoscritto, parlano di gara corsa in difesa, di crampi che hanno impedito una prestazione all’altezza. Ciò che rimane dello spirito trail. Accanto a me il sannita se la ride sotto i baffi.

PS: qui la traccia da Brunate in poi. Leggende lacustri parlano di una gara di 35,5 km e D+2600. Toglierei tre km dall'orizzontale e 200 metri dal verticale. E questo è quanto ed è pure troppo.

1 commento:

  1. tutta 'sta strada e nemmeno una castagnetta? un porcinello? ;)
    grazie per la condivisione, vero spirito trail.

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