Ci scodellano alle 7.45 a Como, sul ramo
meno famoso del lago. Siamo noi e qualche pescatore. Al pronti via sono ancora
a smanettare sul gps che non vuole saperne di partire (si metterà in moto a
Brunate). Io invece parto e dopo poche centinaia di metri è subito salita su
bella mulattiera acciottolata. Come sempre in queste situazioni c’è chi sgomita
e chi va piano, difficile prendere il proprio ritmo, modulare il passo al
respiro. Fortunatamente si alterna salita a falsopiano a beneficio di un breve
recupero. Procediamo accompagnati da truppe di escursionisti sbarcati dalla
funicolare e bikers a chiedere spazio e farsi belli con la tecnologia sotto al
culo. Rifornimento alla capanna CAO (e già si sente odore di spezzatino). Poi
su, prima il Boletto e poi il Bolettone. Ci si arriva per sentiero infido e
scivoloso (per il secondo trail consecutivo mi rammarico di aver lasciato i
bastoni in auto), mentre la fila dei trailers si sgrana. Il primo cancello al
culmine della salita lo passo con 30 minuti di anticipo. La discesa è scivolosa quanto la salita. Piombo sul ristoro in derapata, poi nel bosco si fila
via con maggiore sicurezza. Ora tocca affrontare il Palanzone. In cima la
nebbia, da dietro incalzano. Vado su al mio passo, senza troppo affanno,
sfruttando gli scalini naturali che offre il terreno. Ci arrivo bene, la nebbia
offre suggestioni, ma smorza il panorama. Gli alpini, invece, offrono vino, c’è
anche della coca(cola) benedetta. Adesso giù a freni tirati che sembra di pattinare
sul ghiaccio, salmoni controcorrente piombiamo sugli escursionisti che salgono.
Difficile controllare la traiettoria nell’erba viscida. Sono una decina di km in
discesa verso Canzo. A passo leggero si avanza con compagni d’avventura raccolti
per strada, a fare lo slalom tra frotte di famiglie in cerca di castagne (“ma da quando si mette il pettorale per
andare sui monti”). Rifugio Marinella e poi Canzo. La strada si asfalta ed
invita ad allungare. Caldo e code di auto in gita. Oltre la stazione delle Nord,
poi su verso Fonte Gajum. Mi fermo a fare stretching, un po’ di crisi, come
sempre parte dallo stomaco (accidenti ai gel). Si parla, ci si incita a vicenda.
Finalmente il secondo cancello, alla fonte. Si traguarda in 3h30’, in anticipo
di una mezz’ora. La strada ora la conosco. Il falso piano è traditore, ti dice
corri, ma tu vedi lassù dove devi arrivare e dici no grazie. Così cammino a
passo spedito, la crisi è arrivata e se n’è andata. Al rifugio III° Alpe già
scodellano piatti di polenta ai gitanti incuriositi. Per me coca e sali
minerali. Una telefonata a casa per sapere se le lasagne sono venute bene
(forma di testamento occulto), due chiacchiere con un trailer preso da
ipotermia, fa caldo ma lui si tiene la giacca. "Ritirati. No. Ti capisco". Riparto insieme ad un
gruppetto. Ora viene la parte più tosta dell’intero percorso e 25 km già nelle
gambe. Tengo il mio passo e presto le voci si perdono nel bosco lì sotto. Raggiungo
il sannita del pullman. Chiede quanto manca allo scollinamento, si rammarica
per non essersi ritirato al rifornimento precedente. Lo incoraggio, faccio
appello ai suoi avi, unico popolo italiota, insieme agli antichi liguri delle
valli qui in fondo al lago, a resistere indomito alla Dominante. Lo lascio maggiormente
perplesso. Più avanti nonno alpino e nipote a protezione di una svolta. “Questo
deve essere uno degli ultimi” mi apostrofa il giovine. Il nonno lo zittisce per
non infierire sulla fatica dei vinti. Mi fermo a prendere fiato.
Quanto manca? tanto già lo so.
Quanto ti hanno detto quelli sotto?
Qundici minuti.
Sono almeno venti, quelli non
ci sono mai saliti da qui.
Ed i primi?
Veloci, ma non c’era battaglia, il primo
li staccava di un bel pezzo.
Chi era?
Un foresto, di Lecco! Ah be’.
Finalmente
la croce dei Corni. Qui sembra estate, impossibile non fermarsi a fare qualche
foto al ramo più famoso del lago.
Da lontano sento qualcuno che mi incita
chiamandomi per nome. Mi avvicino: un signore e tutta la famiglia mi danno il
cinque, lui con cannocchiale, la figlia con l’elenco dei partecipanti sulle
gambe. Ci incoraggia uno ad uno. Vero spirito trail, vera commozione. Più avanti
al rifornimento del rifugio SEV gli alpini vivono un futuro meno incerto: la
scopa della corsa è già passata dal III° Alpe, i russi si avvicinano. Ma questi
alpini non si preoccupano: tra poco potranno gustarsi il panorama con la slinzega ed il rosso che fanno bella
mostra di sé tra sali minerali e cocacola. Io prendo solo acqua e mi butto in
picchiata. Prima è un toboga scivoloso a curve strette poi la pendenza si addolcisce
e mi stupisco anch’io nel vedermi zompare da un sasso all’altro (che stia abituandomi
alla discesa?). C’è tempo per superare qualche socio un po’ cotto e fare
qualche bella foto. Pure un video negli ultimi 600 metri, ad immortalare il
momento. Gli applausi di qualche spettatore, un cinque a due bimbi prima dello
striscione. 5h41’, 175esimo su 209, senza sgomitare per arrivare 174esimo.
Complimenti!
E’ finita qui?
Sì, perché ne
volevi ancora?
No, per oggi basta così.
Fatica ben spesa, gustando momenti
d’autunno: calpestare le foglie gialle sopra Brunate, respirare la nebbia
grassa sul Palanzone, immaginare scampoli d’estate sulle cime sopra i colori indefiniti
del lago.
Nello
spogliatoio cercatori di funghi e raccoglitori di castagne, come il
sottoscritto, parlano di gara corsa in difesa, di crampi che hanno impedito una
prestazione all’altezza. Ciò che rimane dello spirito trail. Accanto a me il
sannita se la ride sotto i baffi.
PS:
qui la traccia da Brunate in poi. Leggende lacustri parlano di una gara di 35,5
km e D+2600. Toglierei tre km dall'orizzontale e 200 metri dal verticale. E
questo è quanto ed è pure troppo.
tutta 'sta strada e nemmeno una castagnetta? un porcinello? ;)
RispondiEliminagrazie per la condivisione, vero spirito trail.