Pioggia battente,
pioggia intermittente, piovaschi ... pioggia intermittente, pioggia battente,
ecc. ecc.
Attendo in auto che spiova, mentre nuvole nere disegnano
forme strane sulla superficie del lago, illuminato dalle prime luci dell’alba.
Inutile. Continua a piovere. Allora mi metto in coda per il controllo del materiale
obbligatorio. Oggi nessuna deroga. Ieri in quota ha nevicato e anche questo
pomeriggio è prevista neve. Goretex si, goretex no. Poi si parte, che già sono
le 7. Un lenzuolo nero teso dai barbuti di URMA ricorda a tutti i 600 trailers
che l’unica nostra fede è la fatica e oggi siamo qui per professarla. Il primo
stop, quando inizia il sentiero che porta ad Andalo, mi dà il tempo di togliere
il goretex e scambiare quattro parole con uno della Valbossa, pure lui scappato
dalla riserva made in Varese. I primi km sono salita corribile. Ci si scalda al
solo pensiero che finalmente la pioggia ci dà una tregua. Ad Andalo poca gente
infreddolita e la piazza della mia gioventù assolutamente vuota. Si sale in fila
indiana, oltre l’ultimo maso, per il sentiero che taglia la forestale. Bel tracciato
davvero. Strano a dirsi, ma il bosco che ci avvolge sembra anni luce lontano
dalla folle urbanizzazione che ha interessato il paese ai suoi piedi. Uno
shottino di the al primo ristoro e poi ci immergiamo in un single track tutto
sali e scendi. Intorno arbusti bassi e conifere nascondono solo parzialmente le
pareti di dolomia che si iniziano a intravedere sopra di noi. L’ambientazione è
tutto molto Yosemite.
La rampa oltre Malga Spora ci porta allo scoperto quando la
pioggia torna a farsi fitta. Al passo della Gaiarda si aggiunge il vento e
nella successiva salita al Grostè pestiamo la prima neve di stagione. Nuvole
basse avvolgono le pareti che ci sovrastano. Siamo ormai sul versante di
Madonna di Campiglio. Piste da sci, funivia e allora giù in picchiata si arriva
al rifugio Graffer.
Il tratto successivo è una manciata di massi lanciata da un
dio che non ama i trailers. Si sta in equilibrio per grazia ricevuta sulle
pietre scivolose. Ma infine arriva anche il rifugio Tuckett, con le tipiche
persiane bianche e azzurre dei rifugi trentini. Il freddo si fa sentire, e
allora il brodo del Tuckett, scodellato in bicchieri marcati Forst, non ha
prezzo (è una delle ragioni per cui sono tornato su questi sentieri). Gambe a
posto testa ancora sul pezzo, peccato le nuvole basse che mi precedono verso il
punto più alto della gara, Bocca di Brenta (2552). E’ un susseguirsi di rampe
brevi e cattive fino al Rifugio Brentei, per anni la casa della grande guida
alpina Bruno de Tassis che qui ha scritto pagine di storia alpina. Ai meno
esperti il rifugista indica il tempo per arrivare in cima alla Bocca. Si tiene
largo perché siamo tapascioni che passano a valanghe di minuti dai primi.
Un’ora è il tempo che impiegavo da ragazzino e che voglio impiegarci anche
oggi. La chiesetta dei nostri sogni è l’ultimo avamposto prima della bufera che
risale con me il vallone del Brenta. L’acqua ghiacciata tempesta il goretex
ormai umido. Si intravede il ghiaione finale tutto imbiancato. Quando ci arrivo
l’acqua si è fatta neve. Dalle pareti sovrastanti scendono vere cascate. Il
tratto più verticale ricompatta il gruppo. Uno dietro l’altro, senza soluzione
di continuità: piantare i bastoncini, fissare il piede di chi ti precede,
sostituire il tuo nell’orma lasciata, non guardare in alto. Freddo bastardo,
acqua dappertutto, guanti asciutti nello zaino. Siamo in cima, duecento metri e
il rifugio Pedrotti accoglie tutti. Ci metto un po’ per riprendermi e
soprattutto per indossare qualcosa di asciutto. Quando esco la tempesta sembra
passata. 32 dei 45 km se ne sono andati e ora è discesa, da aggredire per
riscaldarsi e per non perdere il filo di una camminata veloce che finalmente diventa
corsa lenta.
Gli ultimi km sono ben diversi da quell’altra volta. Lo sforzo
maggiore è superare quel tipo dal cappello a falde che continuava a chiedermi
di farlo passare. Poi è la passeggiata sul lungo lago, lo striscione e la
spasmodica ricerca dell’unica ricompensa per la nostra fede nella fatica, la
birra.
A futura memoria: la lunga da 64k, annullata quest’anno per
le condizioni atmosferiche, offre un percorso più completo senza per questo
“menare troppo il can per l’aia”, come spesso avviene nei trail in cui si
privilegia il kilometraggio alla logica. Porta i concorrenti a transitare in
angoli delle dolomiti di Brenta davvero poco frequentati. La gara corta,
tuttavia, segue un percorso altrettanto logico e appagante che rende i suoi 45k
(alla fine ne ho contati oltre 47) un viaggio alla scoperta di questa
meravigliosa zona dolomitica. Il DBT è un trail in vera semi-autosufficienza.
Volontari posti nei punti più critici, ristori sufficientemente distanti, ma
non troppo (d’altronde i rifugi sono lì da tempo, impossibile spostarli!).
Ristori top (si è capito che vado pazzo per il brodo del rif. Tuckett?), non
manca nulla, in quantità sufficiente per 600 trailers che come al solito
arrivano ai ristori pensando di essere al buffet di antipasti di un matrimonio.
Nessuna pecca? All’arrivo deve essere più visibile la spillatrice della birra.
Suvvia! Siamo trailers assetati e offuscati dalla fatica.
Nessun commento:
Posta un commento